martedì 17 gennaio 2012

Sa Accabadòra


Sa Pratica

( l’esperta)

 Sa Pratica, nella cultura popolare sarda, indica e designa una donna che ricopre diversi ruoli e svolge diverse mansioni e compiti a seconda dell’occorrenza e di determinati casi.
 Per ogni ruolo le veniva attribuito un nome specifico:
 sa levadorà: levatrice, forniva assistenza alle gestanti durante la gravidanza;
 sa megheinosa: s’incantadora: donna delle “medicine”, assisteva e curava i malati,
 sopprimeva i nascituri deformi, estraeva denti,guariva i mali con formule magiche, malocchio, scopriva i furti;
 s’accabbadòra: colei che induce alla morte, alla fine;
 s’attitadora: colei che praticava la nenia, il lamento funebre.

 Sa levadorà

La nascita di un bambino comprendeva diversi rituali; in primo luogo nella casa del nascituro non potevano entrare persone con reliquie o che in passato avessero ricevuto l’Estrema Unzione, per preservare la nascita da sortilegi e dal male.  Si accendeva una candela benedetta prima delle doglie.
 Alla nascita si affiggevano immagini sacre sulle porte dalla casa per impedire l’accesso alle streghe e agli spiriti maligni.
 In alcuni casi veniva posta una scopa di saggina o un piatto di grano fuori dalla stanza del nascituro di modo che le megere, prima di entrare, dovessero contare i rametti o i chicchi, passando così tutta la notte e raggiungendo il giorno senza creare malefici.
 Secondo alcune usanze  si usava seppellire un cane vivo sotto la casa  per assicurare lunga vita.
 Dopo il parto, per prevenire il neonato dal male si bruciava la placenta,  si legava l’ombelico del bambino con un filo intrecciato dalla madre o la stessa placenta veniva conservata come amuleto.
 Il cordone ombelicale rappresentava la porta dell’anima attraverso il quale la madre alimentava lo spirito purificandolo dai malefici e dal malocchio.
 Sulla culla veniva apposto un amuleto “su cocco” o amuleti vari, “pungas o pera de s’ogiu.

 Sa accabbadòra
 La morte



Anche per la morte venivano eliminati, per decisione famigliare, dalla casa dell’interessato oggetti, reliquie e amuleti sacri (rezettas, pungus) perchè impedivano all’anima di uscire dal corpo, in modo da abbreviare l’agonia del malato.
 Se necessario si utilizzava il “supremo rimedio”, un giogo (arnese agricolo), chiamato juale o juvale: un aratro o un carro a buoi posto sotto la cervice del moribondo, conservato in un angolo del letto senza mai bruciarlo.
 Diceva il detto: non podde morrer si non bi pònini in cabizza unu juale;

                         duos montes paris paris, duas cannastreme, treme, si lu ponnes in  

                         cabizza, prus lestru ti nde moris.
 Il giogo, talvolta poteva essere utilizzato anche per le nascite per facilitare il parto e proteggere il neonato dalle  SURBILES (mosche malefiche che succhiavano il sangue). Con il tempo su juale diventa su jualeddu, legno d’olivo , d’oveva essere tagliato in chiesa durante la domenica delle palme o di Giovedì Santo al canto del Passio.
 Seguiva l’estrema unzione durante la quale tutti restavano in piedi con la presenza del sacerdote in cotta e stola sotto l’ombrella, con chierichetti e donne oranti.
 Se l’agonia del moribondo aumentava, i famigliari venivano allontanati dalla stanza come scusa per far intervenire l’accabbadora.
 L’esistenza della accabbadòra  rimane un tabù in quanto non vi sono documenti scritti che ne testimoniano l’agire, in parte perché trattandosi di un atto non giuridico, il rito dell’accabbadòra, veniva praticato con estrema segretezza all’interno delle abitazioni e senza testimoni; in parte perché l’ideologia corrente del clero sacro considerava l’atto dell’accabbadòra  un servizio richiesto e offerto a scopo umanitario, senza necessitata documentazione.

 ACCABBADòRA viene da accabbàre che significa fine, terminare; accabbu, fine, termine; dal catalano accabbar che significa portare a fine, dare fine (ad una cosa terminata), dare l’ultima mano (ad una cosa), arrivare all’esaurimento (di una cosa) .
 Secondo alcuni studiosi accabbadòras viene dal verbo accabare, la cui radice, su cabu (capo) indica dare al o dare sul capo o condurre a fine qualche bisogna.
 Oggi accabbadòra viene comunemente tradotto in ucciditrice dal fenicio che vuol dire porre fine.
 È importante considerare sa accabbadòra come colei che pone fine, non come colei che uccide. Lei è colei che aiuta a morire.

Secondo il racconto di Stintino la femmina accabbadòra era una vecchia donna  che agiva al calar della sera, entrava in casa, accanto al capezzale, accarezzava la testa del malato, cantava il rosario, infine , dava una botta secca sul capo del malato con un’attrezzo avvolto nell’Orbace. In altre situazioni, l’accabbadòra chiudeva la bocca del malato con il palmo della mano, stringendo forte le narici con le dita e, ottenuto l’effetto, interrompeva la nenia, si copriva capo e volto con fazzoletto nero e lasciava la casa sparendo.

L’ accabbadòra veniva chiamata solo nel caso in cui il defunto era ridotto allo stremo; secondo alcune testimonianze essa elargiva un ultimo tentativo di salvezza:  avvolgeva il malato in un lenzuolo zuppo di acqua fredda, o lo si immergeva in un contenitore di rame adatta. La reazione tra il gelo dell’acqua ed il calore corporeo avrebbe creato per effetto una broncopolmonite fulminea che avrebbe posto fine al tormento del malato liberandolo dall’agonia e dal male.

Sa accabbadòra arrivava, come già detto, di notte con la formula DEU CI SIA,
 allontanava tutti con un gesto e, sola, assestava un colpo di “mazzolu” sulla testa del malato, talvolta bastava la semplice pressione del cuscino sul viso.
 Su mazzolu è un grosso martello ricavato da un robusto ramo in legno d’olivastro tagliato ai lati, con un prolungamento che funge da manico.
 Dopo il decesso, abbandonava la casa senza farsi vedere o notare.


 Sa attitadòra
 La  veglia



La veglia era caratterizzata da s’attitu , su teu o s’attidu, la manifestazione di dolore dai famigliari o commissionate alla femmine attitadòras.
 Quest’ultime potevano essere donne di paese note per la loro ricchezza o bellezza e chiamate per solidarietà (talvolta pagate) a vegliare sul defunto, una sorta di prefiche.
 Attitu dal latino significa guaito di stupore; dal greco ototòtei grido di dolore.
 Le attitadòras cantavano una nenia in virtù del morto, accentuata spesso da grida e e gesti di dolore( strapparsi i capelli) di qui la frase “est preghende a pilu isortu” (sta piangendo con i capelli sciolti) o, per augurare il male “ancuvajas a pilu tirau” ( che tu possa andare strappandoti i capelli).
 Le attitadòras spesso si rivolgevano al defunto come se fosse ancora in vita con frasi del tipo “mi stai sentendo?” ; tale usanza viene tramandata dalla cultura romana e si definisce nella formula LAS TRES VEUS, le tre voci, triplice domanda nei confronti del defunto, e alla mancata risposta veniva constatato il decesso.

Canto d’attitu: po unu coltu e trigu

                        Prangu anzenu maridu

                        Ne peldo e ne balenzo

                        Maridu anzenu prangu

 L’attitu era, naturalmente un canto differente a seconda del tipo di morte ; in caso di uccisione, il canto era vendicativo ed esortava all’odio ed alla violenza; per questo fu vietato e bandito dalla legge.
 Durante la veglia veniva preparata la cena del morto, spesso ad opera dei vicini, amici o compaesani. Questa veniva posta accanto al morto per evitare che andasse all’aldilà a stomaco vuoto.
 Nel caso di omicidio in alcune località della Sardegna, consisteva nell’offrire cuore, fegato e intestino alla vedove, che doveva mangiarlo per consumare la vendetta.
 Il funerale
 Assistevano al funerale gli amici, i parenti meno stretti e i compaesani (sos confrades), non vi partecipavano i famigliari, costretti a casa per le condoglianze.
 Queste consistevano in una stretta di mano o per morte violenta in un abbraccio o bacio e la formula rituale “ deus bos diat passentsia”  cui si rispondeva “ deus bos paghede sos passos e a tottu kie l’hada accumpagnadu” .
 La messa veniva designata sotto il nome di “corpores presenti” al canto del profunde,
 miserère, e il benedìctus accompagnato poi dai passi del corteo e dal suonpo della campana.
 Il lutto
 Dopo il funerale veniva distribuito il pane “su coccoi” e la sera veniva offerta la cena ai partecipanti.
A Bitti si preparava un pane detto GHIMISONE ,un pane povero che simboleggiava la povertà interiore a seguito della perdita della persona cara. Il nome è anche quello di un lievito e indica infatti il lievito di una nuova vita.
 Durante il lutto venivano chiuse porte e finestre, coperti gli specchi e fatto sparire oggetti frivoli. Accanto al defunto veniva posta sa salantia: un bicchiere pieno d’olio nel quale galeggiava un lumino in latta o sughero.
 Venivano rimandate eventuali celebrazioni (battesimi, matrimoni ecc ecc.).
 Le vedove, rigorosamente vestite di nero, non uscivano di casa per un anno e più, o sino al prossimo matrimonio. 
Per il vedovo il lutto durava meno.






1 commento:

  1. Qualcuno può aiutarmi ,per favore? Sto cercando canti popolari sardi che parlino della accabbadora...se qualcuno li conosce...grazie,risponda qui.

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asophia intona